Una veneta fra i sardi. Parte seconda

…continua.

Oltre all’impotenza di fronte alla proposta di farmi provare il vestito tradizionale sardo, non sono mai riuscita a sottrarmi alla richiesta di mia suocera di accompagnarla alle messe tradizionali. In realtà a tutto questo non ho mai posto molta resistenza, anzi, sono grata a tutti di come mi hanno sempre amorevolmente coinvolta e accolta nelle loro tradizioni.

Due sono le occasioni che ricordo con più affetto: la prima è la messa per l’Assunta a Siniscola, con la statua della Madonna portata in processione e le mille strofe di “Deus te salvet Maria”, cantate a cappella da tutta la chiesa, con le due o tre condottiere della prima fila, rigorosamente con la gonna nera plissettata e la voce da vero contralto/baritono, che anche senza microfono e dalla chiesa avrebbero potuto guidare la processione fino al mare.

La seconda una messa a Tamarispa con un gruppo di tenores che animavano la celebrazione. Il cantu a tenore, considerato dall’UNESCO “Patrimonio intangibile dell’Umanità” data la sua unicità e la sua bellezza, mi ha sempre affascinato e confesso che in quell’occasione la mia partecipazione di credente alla messa è stata marginale, presa com’ero, per la prima volta, a capire dove mettesse la voce su bassu. Il fascino di quelle armonie tipiche, apparentemente monotone e oggettivamente gutturali, mi lascia ogni volta imbambolata: non importa come facciano a vibrare le corde vocali, l’importante è che perpetuino una tradizione che rappresenta, secondo i racconti, le voci della natura, con il solo strumento che l’uomo ha in sé da sempre (ascolta un esempio).

Tornando all’accoglienza sarda, indubbiamente tutti sanno che è proverbiale e figurarsi se diventi della famiglia. Ricordo una cugina, mai vista prima, che mi prese per mano dicendomi: “Ròbbe, vieni che ti mostro il resto della casa”. Ma quando mai un milanese non solo ti prende per mano, ma ti sfiora proprio? Esagero, lo so, ma quel gesto mi colpì molto, così spontaneo e solare.

L’accoglienza sarda però mi segnò molto anche in un’altra occasione, che da tragica si rivelò comica.

Era morto uno zio di mio marito, anziano e malato da tempo, dell’entroterra più remoto e con cui le diverse famiglie non avevano rapporti frequenti, un po’ per dissapori passati, un po’ per la lontananza. Il povero zio muore proprio mentre noi siamo in Sardegna in vacanza. Dopo un primo momento di dubbi, decidiamo di andare al funerale (diciamo che l’intervento da Milano della suocera ha molto inciso…). Mio marito non metteva piede in quel paese dall’infanzia o poco dopo. Naturalmente partivamo con le migliori intenzioni: ci mettiamo dietro, non ci facciamo notare troppo, tanto comunque non ci conosce nessuno (io no di certo, magari mio marito, ma l’ultima volta era piccolo perciò nessuno l’avrebbe riconosciuto), e, finita la celebrazione, subito a casa senza passare dal cimitero.

Morale: alla fine della messa, con il povero zio ancora all’altare, tutta la parte posteriore della chiesa si gira a salutarci e a baciarci e a farci festa, immaginando chi fossimo (vista la somiglianza di mio marito col padre), e, visto che eravamo i parenti venuti apposta (apposta!) da Milano, avevamo diritto ad accompagnare la zia vedova. Quindi con la zia in macchina, la nostra, dall’avere i dubbi se andare o meno, eravamo diventati la prima macchina dietro al carro funebre, protesi solo a consolare la zia che invece dalla macchina salutava, regale, i parenti sulla strada.

La parte ancora più tragicomica arriva ora: la bara, riaperta, del povero zio, viene posta all’interno della cappella del cimitero e tradizione vuole che tutti i parenti (almeno 2 paesi completi), passino a fare le condoglianze ai parenti più prossimi e poi al defunto. La successione era diventata: la vedova, mio marito, io, il defunto. Non so quanti baci, buffetti e mani sudate mi sono sorbita, con mio marito che ogni tanto mi sussurrava di uscire, io che potevo, mentre a fatica entrambi frenavamo il riso. Penso che Villaggio in versione Fantozzi, sapendolo, si inchinerebbe.

Sempre con sincera gratitudine e grande affetto.

(di Roberta Frameglia, 28 giugno 2015)

Una veneta fra i sardi. Parte prima

Tamarispa (OT), agosto 2004

Tamarispa (OT), agosto 2004

Oggi mi chiedevo: come può un veneto, che pialla ogni consonante, sopravvivere ai sardi che raddoppierebbero, potendo, anche le vocali? Non lo so ancora, ma se ci riesco io, felice da 13 anni, assicuro che è possibile. Padela VS otttobbre

Si sa che una delle mete preferite per le vacanze è la Sardegna. Avendo sposato un sardo, la mia seconda famiglia è quindi sarda, perciò la Sardegna a cui io sono legata non è quella turistica, ma quella dell’entroterra, quella verace, con le sue tradizioni più radicate e le curiosità più particolari.

Il primo incontro con questi due aspetti risale a prima del matrimonio, quando, per presentarmi in un colpo solo a tutta la famiglia (via il dente, via il dolore), sono stata portata ad uno dei momenti più attesi dell’anno: la tosatura delle pecore. Era la prima settimana di giugno e in un capannone enorme in mezzo al niente, c’erano almeno 100 persone, tutte imparentate
fra loro (ed era la parte della famiglia più stretta, perché lì, di imparentati, sono paesi interi), prese chi dalla tosa, chi a preparare i tavoloni per il pranzo, chi a cucinare, chi a studiare me.

La tosatura era affidata agli zii più forzuti, dei quali mi incantava la decisa manualità e la velocità, mentre nel frattempo, in enormi pentoloni, cuoceva la pecora per il pranzo, nel retro della casa, con la supervisione di uno zio anziano, guardato da altri zii anziani (quella di guardare dev’essere un’ attività soddisfacente, visto l’analogo successo nei cantieri in città).

Di quel pranzo ricordo la parlata in dialetto velocissima, il mio piatto mai vuoto che neanche mia mamma nei suoi momenti migliori…, con tutte le parti della pecora, bollita o arrosto e i litri di quel loro vino quasi nero e del mirto ghiacciato. Alla fine uno zio, baciandomi, mi ha detto: “Ròbbe, ci vediamo alla festa in piazza sabato”. Prova superata.

La parte religiosa/superstiziosa è molto radicata in Sardegna e in più occasioni sono stata anch’io coinvolta in pratiche “scaccia male”. La prima al nostro matrimonio, celebrato ad Assisi, ma festeggiato successivamente anche in Sardegna, con tanto di vestito e mega pranzo: all’entrata al ristorante mi sono vista rompere davanti dei piatti da alcune zie energiche e convinte, contenenti caramelle, pasta, riso e monete, e ricevere piccoli sputi (simbolici) da tutte, sempre con finalità scaccia male e come buon augurio. Il problema è che non ero stata avvisata, quindi le foto della mia faccia in quell’attimo sono memorabili.

L’altro momento è stato quando mi hanno fatto le parole di Sant’Antonio. Fra fede e superstizione in Sardegna il confine è precario, ma conoscendo la buona fede (è il caso di dirlo) della zia che me le ha fatte, mi sono affidata. Fare le parole di Sant’Antonio ha un’origine antichissima, che si tramanda di madre in figlia e che richiede una fede e una convinzione non indifferenti. Serve ad allontanare il malocchio (inteso come l’invidia che la gente prova verso di te) e/o a chiedere seri responsi.

Essere l’oggetto delle parole di Sant’Antonio è stato toccante: dopo un paio di minuti di preghiere (presumo, dal nome, a Sant’Antonio) pronunciate in silenzio e forte concentrazione, la zia ha preso un piatto, l’ha riempito con dell’acqua e continuando a pregare e facendo ininterrottamente il segno della croce (a lei, a me e all’acqua), con un coltello intinto nell’olio, ve l’ha fatto gocciolare dentro. Se le gocce versate avessero formato degli occhi definiti senza aprirsi ed espandersi, quella sarebbe stata l’entità grave del malocchio. Confesso che più che l’occhio nel piatto ero io tutta occhi, commossa per quanta serietà nel fare tutto questo e incredula allo stesso tempo.

Continua…

(di Roberta Frameglia, 28 giugno 2015)

Le canzoni “da piedi”

Oggi mi dicevo: non si può far di tutta un’erba un fascio, perché ci sono canzoni estive e canzoni estive, tormentoni e canzoni “da piedi”.

Parto però da un problema: è estate da qualche giorno, ma non c’è ancora un tormentone per l’estate 2015. E’ una preoccupazione. A dirla tutta il 2015 è oggettivamente già pieno di tormentoni: l’Expo, gli immigrati, il gender, Il Volo, ma non c’è ancora  la canzone di qualche pubblicità mandata in loop, “la” canzone dei balli in Riviera, quella che sai che poi finisce in parodia a fine agosto su facebook. Penso a Vamos a la playa, a Waka Waka, ad Asereje, alla Macarena, al Pulcino pio

Ma cos’è un tormentone? L’uso di questo termine risale agli anni sessanta, ai tempi degli spettacoli di varietà, quando un’espressione o una frase fatta veniva diffusa e reiterata dalle radio, dai giornali, da altre trasmissioni televisive o semplicemente tramite il passaparola e veniva usata poi ripetutamente nel gergo e nella quotidianità e diventava così un “tormento”. Proprio con Vamos a la playa degli anni ’80 il termine viene trasposto alla musica e in particolare alle canzoni estive, trasmesse nelle spiagge a ritmo continuo dagli altoparlanti dei bagni. In pratica un tormentone risponde alle seguenti caratteristiche: l’elevata fruibilità, possibilmente di tipo passivo (pubblicità, passaggi frequenti alla radio, nei negozi e supermercati, ecc); il ritmo semplice, ballabile e trascinante; il testo elementare, anche senza significato (Asereje ne è stato l’esempio più eclatante).

La canzone estiva “da piedi” è un’altra cosa: è quella canzone allegra e spensierata che ti fa sorridere e tenere il tempo senza che tu voglia farlo, ma che soprattutto puoi seguire coi piedi mentre sei sulla sdraio e prendi il sole. Tutti e due a destra, tutti e due a sinistra, uno a destra, uno a sinistra, entrambi all’esterno, entrambi all’interno, uno avanti, uno indietro… regolare e beata, mentre ad occhi chiusi non pensi a nient’altro che a seguire il tempo (e non ti serve pensarci neanche troppo). E’ semplicemente la tipica canzone estiva con le chitarre in sottofondo e una voce allegra che parla del sole e di quanto è bello essere innamorati o di poco altro. Ma sia chiaro: non è “il tormentone”, perché non è detto che sia una canzone nota, anzi, talvolta rimane di nicchia.

Le caratteristiche della canzone “da piedi” sono precise:

  • non è del tutto stupida, spensierata ma non stupida;
  • ha un ritmo regolare, subito accattivante e una struttura perfettamente rientrante nei canoni tradizionali della canzone pop (strofa, ritornello, strofa, ritornello, ponte, ritornello n. volte). Se già il ritmo è incalzante o troppo rock, non è più “da piedi”;
  • è in una tonalità rigorosamente maggiore. Se c’è anche una leggera vena malinconica anche solo nel timbro della voce, non è “da piedi”;
  • è per voce e strumenti pop, a volte con percussioni, altre con altri strumenti più particolari (l’ukulele), rigorosamente però con la chitarra classica con plettro e accordi in sottofondo (che rimanda sempre inconsciamente al falò sulla spiaggia e quindi all’estate);
  • ha testi che parlano d’amore, d’estate, di libertà, di leggerezza, senza frasi banali tipiche del tormentone (“dammi tre parole…sole, cuore, amore” nella canzone “da piedi” non si sentirà mai!).

Sono anni che penso che questa categoria dovrebbe rientrare nell’immaginario comune.

Riporto sotto qualche esempio.

Michael BubléHaven’t Met You Yet 

Elton JohnThe Heart of Every Girl 

Natalie ColeThis will be 

Simple PlanSummer Paradise ft. Sean Paul

Michael Franti & SpearheadSound of Sunshine ft. Jovanotti

The FoundationsBuild me up 

James BluntPostcards

Ornella VanoniBasta poco 

Per la cronaca ho pronte delle meravigliose coreografie coi piedi perfezionate negli anni.

(di Roberta Frameglia, 26 giugno 2015)

Un soprano in Duomo

Carlo Canella (Verona 1800 - Milano 1879) Il Duomo di Milano e la corsia dei Servi, 1865. Olio su tela. Gallerie d'Italia, Milano.
Carlo Canella (Verona 1800 – Milano 1879)
Il Duomo di Milano e la corsia dei Servi, 1865. Olio su tela. Gallerie d’Italia, Milano.

Oggi qualcuno mi ha detto: “ma anche la tua professione in Duomo avrà qualche lato folkloristico.” Qualche? In alcuni momenti la mia professione è puro folklore!

L’inizio delle mie collaborazioni canore con la Curia di Milano risale al 2002, precisamente al passaggio fra il Cardinal Martini e il Cardinal Tettamanzi. Ho sfocati ricordi di quelle prime celebrazioni, ma chiara ho in mente la tensione che provavo, in realtà più per il luogo che mi sovrastava mastodontico che per il lavoro in sé. Da allora gli impegni alternano presenze costanti alle messe domenicali in Duomo a spostamenti in altre Chiese di Milano o altrove a seconda delle necessità, sempre come cantore (soprano) solista. E la tensione è decisamente sparita.

Naturalmente la mia è una posizione privilegiata, non solo per il tipo di impegno, ma proprio fisicamente perché ho la possibilità di vedere bene tutto: sono sopraelevata e di fronte a tutti. Con i pro e i contro del caso, perché come vedo tutto e tutti io, altrettanto tutti vedono benissimo me. E anche qui con i pro e i contro del caso.  Sui “tipi da Duomo” però tornerò prossimamente in un articolo apposta, perché ora mi concentrerò sul folklore che mi riguarda direttamente da anni, altrettanto divertente.

Nonostante non ci si pensi subito, in Duomo non ci sono solo turisti, ma un notevole gruppo di fedeli…fedeli: ad ogni messa, come in una normale parrocchia, le prime file, e non solo, sono occupate sempre dalle stesse persone, non necessariamente abitanti nelle vicinanze, ma anche habitué per scelta. Questo per dire che se mi sentono tossire fra un canto e l’altro, in delegazione a fine messa mi arrivano a chiedere come sto, e se non arrivano subito dopo, arriveranno la domenica successiva per chiedermi se sto meglio. Qualcuno, più ardito, ha individuato mio marito e fermato per sapere come stessi. Per non parlare dei miei fans più noti, uomini e di età media 80 anni, che:

  • a Natale e a Pasqua mi portano torrone, caramelle o cioccolato, passando le transenne con la frase “ho un appuntamento con Roberta”;
  • scrivono canti per me e vorrebbero che li cantassi a messa, quella che sta per iniziare…;
  • in un gruppo di conoscenti che sto salutando, si intrufolano salutando ognuno con tanto di stretta di mano, presentandosi come “l’amico di Roberta”.

Ma il clou riguarda i commenti sulla mia voce o sul mio canto, come:

  • la signora che arriva a fine messa complimentandosi e chiedendomi: “sono arrivata in ritardo, quando stava cantando l’alleluia, ed era così bella, ma non l’ho sentita tutta: me la può ricantare?”;
  • la coppia di spagnoli, marito e moglie di mezza età, che entusiasti, in spagnolo, si dilungano in dettagliati complimenti per la mia voce e concludono con un fantastico: “canta meglio di Raffaella Carrà!”;
  • il “tenore” che mi ferma, libretto dei canti alla mano, per dirmi che, per la gente, è meglio se respiro qui e non lì, perché anche lui è corista in parrocchia e queste cose le sa;
  • il prete di passaggio, concelebrante, che dandomi la comunione, non mi dice “corpo di Cristo”, ma “te, che bella voce che hai!” e io, in automatico, “Amen!”;
  • la signora, commossa, che mi avvicina per dirmi “brava, che meraviglia, ho pianto tanto…”;
  • l’altra che, ciclicamente, mi chiede quando canto “l’Ave Maria dei matrimoni”;
  • quella che mi chiede se ho studiato canto e, navigata, conclude dicendo “ah, l’avevo capito io”.

Presto i “tipi da Duomo”.

(di Roberta Frameglia, 23 giugno 2015)

Illustri musicisti, storie di emigrati

Oggi mi chiedevo: a proposito di immigrazione, chi sono i musicisti emigrati divenuti illustri?

Il problema iniziale è definire l’emigrato, perché ovviamente, secondo molti, ci sono emigrati (e immigrati) ed emigrati (e immigrati). Chi emigra lascia il suo paese, i suoi cari, magari di fretta, con poche cose, solo con infinite speranze. E ambizioni, quelle tante e tutte meravigliose, concrete e costruttive. Perché l’emigrato è emigrato e basta. E’ qualcuno che fugge, o semplicemente lascia qualcosa, stanco e disperato, nella speranza (e volontà) di trovare altro di migliore.

E’ l’uomo ad essere diverso, come me e il mio vicino di pianerottolo, diversi. Ci salutiamo, neanche sempre, e nessuno dei due sa, una volta chiusa la porta, cosa succeda nell’appartamento dell’altro. E’ l’uomo che sceglie di vivere nel nuovo paese costruendosi una propria identità. E’ l’uomo che arricchisce il nuovo paese portando la propria cultura e le proprie tradizioni, contribuendo alla crescita culturale e sociale della nazione. E’ l’uomo che decide cosa fare della propria vita, nel bene e nel male. Non l’immigrato, la categoria, il ghetto, ma l’uomo.

E nel mondo ci sono tanti emigrati divenuti illustri proprio secondo questo principio, e tanti musicisti anche, con le loro storie, disperate o meno, corresponsabili della cultura del paese che li ha accolti e naturalizzati. Lasciamo stare quelli emigrati per studio, per trasferimenti lavorativi, per amore (che se pur diversamente, della sofferenza l’hanno provata anche loro). Vediamo chi è stato costretto ad emigrare, per questioni politiche, persecuzioni razziali, per la povertà.

  • PIANISTI

Fryderyk Chopin (Żelazowa Wola, 1marzo 1810 – Parigi, 17 ottobre 1849), è stato un compositore e pianista polacco naturalizzato francese. Fu uno dei grandi maestri della musica romantica, talvolta definito «poeta del pianoforte». Bambino prodigio, Chopin crebbe a Varsavia, fino alla repressione russa del 1830, quando si trasferì in Francia nel contesto della cosiddetta Grande Emigrazione polacca.

Sergej Rachmaninov (Velikij Novgorod, 1º aprile 1873 – Beverly Hills, 28 marzo 1943) è stato un compositore, pianista e direttore d’orchestra russo naturalizzato statunitense. Considerato uno dei più grandi compositori e pianisti russi di sempre, dopo la rivoluzione dell’ottobre 1917 decise di raggiungere gli Stati Uniti, dove faceva sempre ritorno dai suoi concerti in tutto il mondo.

Arthur Rubinstein (Łódź, 28 gennaio 1887 – Ginevra, 20 dicembre 1982) fu un pianista statunitense di origine polacca, considerato tra i massimi concertisti del Novecento, e celebre soprattutto per le sue virtuosistiche esecuzioni di Chopin, del quale era considerato il massimo interprete. Studiò a Varsavia, proseguendo i suoi studi a Berlino. Rubinstein trascorse il periodo della seconda guerra mondiale negli Stati Uniti, paese del quale ottenne la cittadinanza nel 1946.

Nikita Magaloff (San Pietroburgo, 8 febbraio 1912 – Vevey, 26 dicembre 1992) è stato un pianista russo naturalizzato svizzero. Di origine principesca, dopo la rivoluzione d’ottobre del 1917 nel 1919 la sua famiglia fuggì dal paese natale e si stabilì a Parigi. Musicista dallo stile nobile e riservato, brillante e allo stesso tempo morbido, fu tra i più alti interpreti di Schumann e Chopin, di cui ha eseguito l’intera opera per pianoforte. È stato anche membro di giuria in importanti concorsi internazionali.

  • DIRETTORI D’ORCHESTRA

Georg Solti (Sir) (Budapest, 21 ottobre 1912 – Antibes, 5 settembre 1997). E’ stato un direttore d’orchestra ungherese naturalizzato inglese. Nel documentario biografico di Peter Maniura (The Making of a Maestro del 1997), a lui dedicato, Solti stesso racconta che suo padre mutò il cognome Stern in Solti nel tentativo di proteggere la propria famiglia, ebrea, dall’antisemitismo. Lo stesso si legge nella sua autobiografia. Solti è stato interprete estroverso e coinvolgente, attento al dettaglio sonoro come pochi. La sua discografia è immensa e sempre di preziosa qualità.

  • COMPOSITORI

Kurt Weill (Dessau, 2 marzo 1900 – New York, 3 aprile 1950). Musicista tedesco naturalizzato statunitense. Nato e cresciuto in Germania, dove iniziò la sua attività artistica e conquistò presto la celebrità, si fece conoscere anche in tutta Europa. Tuttavia nel 1933, malgrado la sua fama e il successo, fu costretto a fuggire dalla Germania per le persecuzioni naziste. Gli anni dell’esilio, prima in Francia poi nel Regno Unito, furono molto difficili. Nel 1935 si rifugia negli Stati Uniti dove rimarrà fino alla sua morte, non dopo aver ottenuto infiniti successi, grazie anche alla collaborazione con Bertold Brecht.

Giörgy Ligeti (Dicsöszentmárton, Transilvania, 28 maggio 1923 – Vienna, 12 giugno 2006). Compositore ungherese naturalizzato austriaco. Di famiglia ebrea, iniziò la sua educazione musicale a Cluj, bruscamente interrotta nel 1943, quando fu costretto dai nazisti ai lavori forzati. I suoi genitori, il fratello e altri parenti furono deportati nei campi di concentramento di Auschwitz, Mauthausen e Bergen-Belsen, dai quali uscì viva solo sua madre. Nel dicembre 1956, due mesi prima che l’ armata sovietica reprimesse i moti d’ Ungheria, Ligeti, portando con sé solo alcuni spartiti e una borsa, si rifugiò a Vienna, dove chiese la cittadinanza austriaca.

  • STRUMENTISTI

Mstislav Leopoldovich Rostropovich (Baku, 27 marzo 1927 – Mosca, 27 aprile 2007), è stato un violoncellista e direttore d’orchestra russo naturalizzato statunitense. Nacque in Azerbaijan (allora parte dell’Unione Sovietica) ma si trasferì negli Stati Uniti, in dissenso con il regime sovietico. Venne considerato il più grande violoncellista del suo tempo. Rostropovič fu promotore dell’arte senza frontiere, della libertà di espressione e dei valori democratici. Queste sue idee erano però in contrasto con il regime Sovietico. Egli fu bandito da tutti i suoi incarichi pubblici e nel 1978 gli fu revocata la cittadinanza dell’Unione Sovietica. Nel 1990, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, gli fu restituita la cittadinanza russa, ma egli mantenne comunque quella statunitense.

Infinite altre sono le storie di musicisti in esilio o in fuga nella storia della musica, non soltanto classica. Un esempio lo rappresenta Chico Buarque de Hollanda (Rio de Janeiro, 19 giugno 1944), cantante, compositore e scrittore brasiliano, uno dei più noti autori ed interpreti della bossanova, rifugiato in Europa, come tanti suoi connazionali, durante gli anni della dittatura militare. E ancor più interessante è la storia di Gilberto Gil (Salvador, 26 giugno 1942), uno dei più importanti e noti musicisti brasiliani, attivista politico contro le misure restrittive del governo militare brasiliano, è costretto all’esilio a Londra, con l’amico e collega Caetano Veloso. Rientrato in patria e ripresa la sua attività di musicista e di militante politico, è nominato Ambasciatore della Fao ed è nominato Ministro della Cultura che lo impegnerà diversi anni.

“Quando si avvicina uno straniero e noi lo confondiamo con un nostro fratello, poniamo fine a ogni conflitto. Ecco, questo è il momento in cui finisce la notte e comincia il giorno.” (Paulo Coelho)

(di Roberta Frameglia, 18 maggio 2015)

Quanto ci ascoltiamo? Il Mosè in Duomo

Oggi mi chiedevo: ma noi ci ascoltiamo? L’un l’altro intendo.

Ieri sera ho assistito al Mosè di Gioachino Rossini rappresentato nel Duomo di Milano (vedi). Un’impresa a mio avviso mastodontica. Non tanto per l’opera in sé, ma per il luogo.

Il melodramma sacro del 1829, nella terza versione, o quarta come scrive Quazzolo (vedi), è in corso di rappresentazione a Milano (in tutto 4 serate), in occasione delle numerose iniziative per l’Expo. In forma semiscenica e in un Duomo trasfigurato da luci, video e immagini proiettate sulle navate e sulle colonne, abbiamo assistito ad un’impresa che ha del miracoloso: gestire, per l’esecuzione di un’opera lirica, la difficile acustica e il riverbero che le navate imprigionano per infiniti secondi (a chiesa vuota possono arrivare anche a 15). Naturalmente non è questo il focus del progetto, ma, oltre alla forza della storia biblica, le affascinanti tecnologie visive e soprattutto lui, il Mosè per eccellenza: Ruggero Raimondi. Le sue esibizioni sono ormai sempre più rare, e poterne apprezzare ancora i legati pastosi e la presenza scenica di grande caratura (quando alza in alto il bastone, come nei film epici che ricordiamo tutti, hai quasi un sussulto), ti fa riconoscere di avere di fronte la storia.

Sul resto, cantanti, direttore, orchestra e coro, non mi esprimo: non sono un critico, grazie al cielo, per capacità e interesse. Naturalmente mi sono fatta una mia idea, ma la ritengo personale e sicuramente non degna di futuri aforismi.

Quello che trovo sempre interessante invece è il dopo spettacolo. Al termine, ancora sull’eco degli applausi, non si perde tempo e ci si chiede vicendevolmente “allora, che ne pensi, ti è piaciuto?”. Il problema sta nella risposta. Hai tempo un nano secondo per dire la tua, meglio se sì o no che facciamo prima, perché dall’altra parte scatta all’istante la necessità vitale di esprimere la propria opinione. Tu non sei ovviamente soddisfatto, perché lo stesso desiderio ce l’hai anche tu, allora i casi sono due: o ti imponi e interrompi chi hai davanti piazzando lì paroloni come “simultaneità dei 6/8 e i 3/4” o “i soliti stereotipi posturali” (entrambi sentiti personalmente nella stessa frase), o cambi interlocutore e ricominci il giochino.

Abbiamo avuto 1 ora, 2 ore, 4 ore per farci un’idea dettagliata sullo spettacolo, ma non abbiamo alcun interesse a metterla a confronto: dobbiamo esprimerla assolutamente, vuoi nel migliore dei casi per focalizzarla meglio a noi stessi, vuoi per un innato e umanissimo egocentrismo. Ma così è un’occasione persa, perché mentre a me del Mosè in Duomo ha colpito l’impianto d’amplificazione, ai canonici i pannelli dietro l’altare e a mio marito i costumi della Squarciapino e confrontarci sulle reciproche considerazioni e magari conoscenze sarebbe interessante. Ma non c’è tempo: “Si è fatto tardi. Alla prossima allora, buon rientro”. Ci penso ogni volta.

Non dimenticherò mai quel nipote che zittì la nonna, una signora deliziosa che, persa in ricordi di uno splendido Del Monaco in piena carriera, teneva in pugno la conversazione, più per rispetto all’età che per effettivo interesse degli ascoltatori, dicendo: “Nonna, torniamo a quello che abbiamo appena visto, che Del Monaco è morto e fra poco anche tu”.

Ps. Per una rilettura approfondita dello spettacolo, vi invito a leggere qui.

(di Roberta Frameglia, 16 giugno 2015)

Cosa lascia l’arte? I Momix

I momixOggi mi chiedevo: cosa ci lascia uno spettacolo, un concerto, un’opera d’arte?

L’altra sera finalmente ho visto i Momix.

Erano anni che volevo farlo e l’occasione del tour per il 35esimo (vedi) ha sbaragliato tutte le scuse e ogni impegno. Le notizie su di loro si sprecano e sinceramente, oltre a quello che già sapevo, non ho voluto aggiungere altro di nuovo per prepararmi. Di solito sono precisina e prima di un recital mi documento e studio, prima di visitare una città della guida leggo anche la presentazione a pag. 3 che non legge nessuno, per non parlare di un’opera lirica… Ma per i Momix ho deciso di lasciarmi stupire: in fondo non è quello che vuole Pendleton, stupire? Quindi mi sono goduta uno spettacolo di cui non sapevo niente fisicamente a bocca aperta, facendomi avviluppare dalle luci, avvolgere dai suoni, rapire dai movimenti.

Devo dire che è stato uno spettacolo nel suo complesso “facile”, nel senso che ad ogni movimento corrispondeva un suono, ad ogni salto un beat, ad ogni scena un’ idea quasi sempre chiara. Non è stato uno di quegli spettacoli di arte contemporanea per pochi, dove un filo conduttore, se c’è, è solo nella testa del coreografo e tu ammiri impotente solo la grandezza dell’anatomia umana (d’accordo, riconosco la mia ignoranza e poca propensione verso la sperimentazione contemporanea estrema, ma sic est).

Nei Momix la connessione movimento-pulsazione è “giusta”, come inconsciamente te l’aspetti, e con le luci sei portato dentro ad un ragionamento lineare (se le gonne sono indossate in un certo modo, le ballerine iniziano a danzare flamenco e allora colleghi che le gonne te l’avevano anticipato, ecc ecc). Ma niente di scontato, anzi! Rimani affascinato e rapito, come se quello che guardi ti leggesse dentro e tu leggessi dentro di lui. Meraviglioso.

Il giorno dopo, come faccio sempre, ci ho ripensato (la precisina): ho ripensato ad alcune scene, a quello che mi aveva colpito di più, a com’ero stata bene, ma la corsa quotidiana mi ha poi distratta. Allora mi sono chiesta: cosa mi ha lasciato davvero? è stato solo un attimo sfumato nell’economia della mia vita o mi ha dato qualcosa di permanente? L’arte in generale ci segna in qualche modo o ci dà solo sensazioni effimere?

E’ naturale che le affinità elettive fra me, musicista, e qualunque espressione d’arte siano forti, mentre per altri gli stimoli potrebbero essere di minore intensità. Ma credo che sia proprio per questo motivo che l’arte attira: perché permette di stimolare un’area specifica con cui probabilmente non avremmo troppo contatto, ci dà la possibilità di affrontare certi sentimenti che altrimenti rimarrebbero sopiti. Nel frattempo, guardando un’opera d’arte ragioniamo, cerchiamo nessi, motivi, relazioni e ci costruiamo un nostro pensiero al riguardo. E tutto questo ci aiuta ad acquisire strumenti ed affinarli per affrontare la quotidianità, affettivamente e razionalmente.

E comunque battere le mani a tempo su un concerto brandeburghese di Bach come se stessi osannando Bruce Springsteen, non mi era ancora mai capitato!

(di Roberta Frameglia, 13 giugno 2015)

E io nannerello!

Oggi mi chiedevo: ma come vive uno stonato?

Mio marito quando siamo in macchina non vuole che nannerelli. E’ più forte di lui: mi guarda di sbieco senza neanche girare la testa mentre guida e basta questo perché io percepisca una completa disapprovazione. E tocca smettere, sbuffo ma smetto.

Com’è più forte di me farlo. Lo faccio da sempre, da quando mi sono rassegnata al fatto che la mia memoria è a suo piacere selettiva: ricordo nomi, cose e città, profumi e balocchi, i 7 nani anche al contrario e con un po’ di concentrazione potrei anche elencare i figli di Bach…ma non i testi delle canzoni. Quelli mai!

E’ sempre stato così. Dalle infinite strofe di certi Lieder (comprensibile) a canzoni tipo “Azzurro” (giuro, non la so). Finché sono le arie del ‘700 col da capo e le variazioni, mi diverto anche e agganci mentali li trovo facilmente, ma quando si tratta di strofe uguali e ritornelli diventa una tragedia: invento le frasi, il senso compiuto sparisce, finché mi blocco e assumo un’espressione fra l’atterrito e il completamente perso.

E allora nannerello. Non canticchio, che vorrebbe dire produrre qualche suono avvicinabile a parole comprensibili, né fischietto, sconveniente per una signora, ma nannerello. E sono pure brava! Il mio na-na-na riproduce perfettamente la melodia, poi i controcanti, le percussioni e pure i ponti armonici.

Al mio compagno (di viaggio) però questo non va: “o canti bene o mi lasci ascoltare”.

Non fa una piega: ci ridiamo su e alla canzone successiva riattacco convinta. La mia autostima non viene intaccata, sono una cantante e sono in grado di decidere come usare la mia voce e di certo mio marito non lo mette in dubbio, anzi si diverte apposta a prendermi in giro.

Ogni volta però faccio una riflessione: io non ho mai subito frasi del genere, ma quante volte ho sentito dire “no, io non canto perché sono stonato”, “per carità che non canti, perché ha una voce terribile”, “ha tutte le più belle qualità, tranne il senso del ritmo”. Personalmente sono convinta che ognuno di noi abbia almeno una dote da coltivare e con la quale realizzarsi e non è detto che sia proprio la musicalità, ma reprimere l’espressione vocale di qualcuno è sempre triste.

Mi capita spesso di suggerire ai genitori dei miei alunni di cantare con loro e di farli cantare, di ascoltare musica o suoni e provare a seguirne il ritmo: stonati o intonati, aggraziati o goffi è importante provarci e, se possibile, provarci insieme. E’ naturale che non si sia in grado di fare qualcosa se non lo si fa mai. Possibile che alla fine si scopra che quel qualcosa non piace proprio, ma precludersi in partenza o precludere a qualcuno la possibilità di sperimentarsi è sempre un peccato. E lavorare con la voce permette sempre di scoprire qualcosa di sé.

Quindi voi rappate, vocalizzate o urlate, che io nannerello!

(di Roberta Frameglia, 10 giugno 2015)

La musica classica va in vacanza

Claude Monet, Beach at Trouville, 1870, oil on canvas. Wadsworth Atheneum Museum of Art, Hartford, CT.

Claude Monet, Beach at Trouville, 1870, oil on canvas. Wadsworth Atheneum Museum of Art, Hartford, CT.

Oggi mi chiedevo: quali sono i brani classici per l’estate?

E’ iniziata l’estate e come tutti gli anni si sceglie quale musica portare in vacanza. E allora perché non pensare anche alla musica classica più adatta ai mesi estivi?

Naturalmente subito penso a Vivaldi e L’estate Summertime di Gershwin da Porgy and Bess. Troppo prevedibile.

Lasciamo correre allora la fantasia: Eine kleine Nachtmusik (“Piccola serenata notturna”) di Mozart, brano che già ai tempi del compositore era suonato nelle corti e nei giardini nobiliari proprio durante le sere d’estate. Der Sommer (“L’estate”) da Die Jahreszeiten (“Le Stagioni”) di Haydn, maestoso oratorio settecentesco per soli, coro e orchestra, o Ein Sommernachtstraum (“Sogno di una notte di mezza estate”) di Mendelssohn, musica di scena composta sull’omonima commedia mitologica di Shakespeare.

Passo ora in Francia, verso gli impressionisti francesi, il cui interesse, più specifico per il mare, si manifesta in pezzi sinfonici come La mer (“Il mare”) di Debussy, considerato una delle migliori opere per orchestra del ventesimo secolo, o i brani per pianoforte Jeux d’eau (“Giochi d’acqua”) e Une barque sur l’Ocean (“Una barca sull’Oceano”) di Ravel, in cui i movimenti suggestivi dell’acqua sono espressi grazie a rapidi e vertiginosi passaggi pianistici, alternati a sonorità più lievi e sognanti.

Se si protende invece verso sonorità orchestrali più contemporanee, nella Piccola musica notturna di Dallapiccola si troverà una immobilità immaginifica, fatta di ombre e luci che ricreano quell’ atmosfera sospesa di certe notti afose d’estate, come la Pastorale d’été (“Pastorale d’estate”) di Honneger, riferita invece all’alba di una giornata estiva.

La liederistica tedesca dell’Ottocento, poi, sa dipingere con la musica e il testo veri quadri ideali, come la piccola ape che dialoga con un giovane ragazzo innamorato, nel silenzio della calura estiva (Der Knabe und das Immlein, “Il ragazzo e l’ape”, di Wolf), oppure “il signor usignolo” che canta solitario su un ramo (Ablösung im Sommer, “Cambio della guardia in estate”, di Mahler). Lo stesso accade nelle mélodies francesi, che spesso prediligono descrivere i campi di grano e i fiori estivi, come i papaveri o i fiordaliso (Fleur des blés, “Fiore delle messi”, o Beau Soir, “Bella Serata”, entrambe di Fauré) o, come nel ciclo Le nuits d’été (“Notti d’estate”) di Berlioz, dove la pittura ideale verte sul gioco fra amore e morte, attraverso immagini fantastiche.

Molte composizioni sono poi dedicate alla montagna, come il lied La Marmotte di Beethoven o Der Alpenjäger (“Il cacciatore delle Alpi”) di Schubert, fino al nostro Rossini con La pastorella delle Alpi o Catalani con la Canzone dell’Edelweiss dall’opera La Wally.

Coraggio, nella vostra tracklist quest’anno, fra Beyoncé e i Modà mettete anche Mozart! Basta iniziare.

(di Roberta Frameglia, 9 giugno 2015)

Gounod e Santa Cecilia

Oggi mi chiedevo: anche Gounod ha scritto per Santa Cecilia?

Ero in macchina e da una stazione svizzera presa a caso sento quello che può essere una messa classica. Dallo stile mi sembra Ottocento. Il soprano ha un timbro noto, pastoso e caldo, ma non mi sforzo e chiedo l’aiuto di Shazam: l’oracolo si pronuncia con un preciso Messe solennelle en l’honnore de Sainte Cécile di Charles Gounod (score). 

 Ah, bene, non la conosco. Ascolto con più attenzione.

Solenne, 3 solisti (il soprano è la Hendricks!), coro maestoso ma non pesante, orchestra e organo. Riconosco di essere al Sanctus. Col Benedictus e ancor di più con l’Agnus Dei mi aspetto arie solistiche importanti, ma questo non avviene: solo scambi dei solisti col coro. Richiamo alla memoria da ricordi lontani il periodo in cui Gounod ambiva alla veste sacerdotale e riferisco questa assenza di virtuosismi solistici ad un tentativo di pensare ad una finalità liturgica. Poi noto che il testo ha delle aggiunte che non riconosco.  

Il panorama mi distrae. La mente vaga. Cosa conosco di musica classica per Santa Cecilia? Beh, c’è parecchia roba: l’ ode di Haendel, di Purcell, la messa di Haydn, mi pare Scarlatti, poi Britten… ma questa di Gounod mi è nuova. Sarà un’opera miliare della storia della musica, ma a me manca. E di Gounod cosa conosco, oltre all’Ave Maria? Il Faust e il Romeo e Giulietta, certo.

La memoria poi ha un sussulto: ho tratto per i miei concerti molti brani dalle sue raccolte per canto e piano dalle Œuvres Religieuses (score); passo adesso al Requiem (score)  e poi certo! ricordo di aver parlato in classe dell’Inno pontificio (vedi), scritto proprio da Gounod e omaggiato a Papa Pio IX. Siamo a metà 1800, non ricordo esattamente quando e non ho voglia di aprire Wikipedia.

La memoria non mi tradisce e si arricchisce comunque di dettagli: 7 bande eseguono questa Marche pontificale per la prima volta al cospetto del Papa stesso e dei più alti Prelati del tempo e in quella giornata viene replicata più e più volte. Maestosità, solennità, ma rispetto liturgico, ne permettono la ripresa nel 1950 e l’adozione ufficiale come Inno Pontificio. Oggigiorno viene eseguita nelle occasioni più solenni dello Stato Vaticano, nella versione strumentale o col testo cantato, in italiano o in latino.

Ecco, alla radio è finita la messa. Ora diranno chi sono gli interpreti… Galleria.

(di Roberta Frameglia, 8 giugno 2015)

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